Emilia Romagna protagonista a Expo il 22 e 23 settembre con il World Food Research and Innovation Forum

Luglio 2015
L’intento del World Food Research and Innovation Forum (22 e 23 settembre) è di costruire in Emilia Romagna una piattaforma internazionale permanente che, dalla gestione sostenibile dei suoli fino alla tracciabilità degli alimenti, rappresenti una leva competitiva per Italia ed Europa rispetto alla messa in sicurezza degli alimenti lungo filiere sempre più globali. Da un lato si pone l’urgenza, soprattutto nelle aree in via di sviluppo, di garantire la disponibilità di cibo per una popolazione che continua a crescere;
dall’altro, la necessità di assicurare qualità, igiene e sicurezza del cibo prodotto e distribuito in una catena del valore sempre più globalizzata. Il diritto universale al cibo, sufficiente, sicuro e idoneo a soddisfare i bisogni nutrizionali richiama a un confronto costruttivo tra le organizzazioni e le autorità nazionali e sovranazionali in base anche ai diversi approcci normativi. Serve infatti una relazione strategica tra i sistemi delle istituzioni, della ricerca e delle imprese per lo sviluppo di una cooperazione a livello mondiale, secondo un modello fondato sui tre pilastri di sicurezza, salute e sostenibilità.
Sul tema caldo della tracciabilità alimentare abbiamo incontrato Paolo Bartolomei, responsabile del laboratorio industriale di Enea, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, membro di Aster.
Che contributo darete come Enea al Forum?
Da un lato metteremo a disposizione della comunità scientifica le nostre competenze tecniche, dall’altro vorremmo sensibilizzare a livello europeo sulla utilità delle verifiche analitiche dei prodotti alimentari e non solo documentali.
Non c’è ancora una normativa europea al riguardo?
Non ancora, oggi ci si accontenta della certificazione che arriva dal Paese d’origine, ma i parametri di misurazione del livello di tossicità delle sostanze possono essere diversi e, spesso, nei Paesi asiatici si accerta solo la presenza di sostanze macroscopiche e non di altre, anche se tossiche. Ad esempio, si può citare il caso delle terre rare (lantanio, cerio): la Cina, che è il massimo produttore mondiale, utilizza come fertilizzante alcuni scarti dell’industria estrattiva di questi elementi che sono tossici e destinati a usi non agro-alimentari (elettronica).
Il forum vuole contribuire a rendere Italia ed Europa sicure sul fronte della sicurezza e dell’origine di prodotto, ma al momento in Italia chi fa richiesta di queste prove analitiche?
Il vino è l’unico prodotto quantomeno regolato da protocolli e disciplinari. In questo caso, sono soprattutto i produttori di alta qualità a munirsi di documentazione che attesti in maniera analitica l’origine e il disciplinare adottato, perché ciò viene richiesto dai compratori stranieri. Anche i produttori che acquistano grandi quantità di vino da taglio spesso ne vogliono verificare la provenienza e le caratteristiche. Ma non ci sono prescrizioni di legge, è una scelta di responsabilità del singolo produttore. È un’abitudine ancora poco diffusa che si potrebbe invece estendere a qualsiasi altro prodotto alimentare.
All’olio per esempio?
Certo, ma al momento ci sono solo alcuni consorzi di qualità che verificano periodicamente l’origine dell’olio dei loro associati, soprattutto se ci sono improvvisi aumenti di produzione cui non corrispondono estensioni di terreni coltivati. Grazie alle tecniche che usiamo, possiamo infatti distinguere un olio del Garda da un olio pugliese, o l’olio italiano da quello spagnolo e tunisino.
Che tecniche usate?
Per risalire al luogo di produzione cerchiamo gli elementi in traccia, che rimandano alla geologia del terreno, oppure l’impronta isotopica, che è data dal rapporto tra gli isotopi stabili, rapporto che può variare a seconda delle condizioni meteorologiche ambientali, della distanza dal mare, dell’altitudine, della temperatura media.
Sono tecniche costose?
Lo sono perché sono ancora poco usate in Italia, ma sono tecniche consolidate, che sono utilizzate da più di cinquanta anni per gli studi di paleoclima. Storicamente, la prima applicazione su larga scala a prodotti agricoli avvenne negli Stati Uniti, negli anni Novanta, per identificare le zone di produzione delle partite di droga sequestrate.