Entra nel vivo il progetto “filiera corta-carne di qualità” in Appennino

giugno 2015

Francesca Bertacci

BOLOGNA – Una filiera corta della carne con un duplice obiettivo: migliorare l’economia dei produttori montani del settore e garantire ai consumatori un prodotto non solo di alta qualità ma anche a km 0.

È il progetto interregionale di soft economy partito a maggio 2014 in Appennino, finanziato dal Gal e promosso col nome di “Filiera corta-carne di qualità”. A partecipare 19 allevatori e 4 macellai sparsi nei 26 comuni della fascia montana tra l’Emilia Romagna e la Toscana, tutti riuniti per l’occasione nell’apposito consorzio “produttori carne di qualità dell’Appennino bolognese”.
Un’idea ambiziosa ma necessaria a rilanciare, con l’economia dei piccoli artigiani locali, la produzione di carne della fascia appenninica. Se infatti nel corso degli anni l’espansione degli allevamenti da latte è sempre più aumentata, di pari passo è invece calata quella da carne, da sempre storica nella regione per la qualità del prodotto.
Una tendenza che ora grazie al progressivo aumento di domanda da parte dei consumatori, per una carne sana e di vicina provenienza, sta finalmente vedendo un’inversione e qualche significativo cambiamento. Primo tra tutti l’instaurarsi di una collaborazione tra i piccoli produttori che altrimenti non avrebbero i mezzi necessari per promuovere adeguatamente la loro carne sul mercato.

“Un cambiamento faticoso” commenta Ubaldo Lazzari della Cia di Bologna “per via della mentalità locale e della mancanza di esperienza in questo senso, che però può fare da esempio per altre categorie merceologiche e per diventare protagonisti del nostro territorio a 360 gradi”. Di certo la voglia di mettersi in gioco c’è e questa nuova sinergia tra gli elementi della stessa filiera permetterà di garantire sempre di più un buon prodotto. Soprattutto perché a esser privilegiati tra gli altri agricoltori saranno quelli ad allevamento non intensivo e quelli biologici, che prevedono la tenuta a pascolo dei capi.
Un motivo in più per spingere gli allevatori della filiera corta a impegnarsi nel fornire una carne sempre migliore, come nel caso dell’azienda Bovulino di Casola che con i suoi 190 ettari di bosco e prati conta di poter spostare sempre più capi dalla stabulazione fissa al pascolo. Per ora la famiglia Malavolti, nel settore da generazioni, si accontenta di tenere in recinto i piccoli di 7/8 mesi e di produrre latte che in parte vende e in parte riutilizza per produrre yogurt, budini e formaggi che rivende in paese, sempre in un’ottica di basso impatto ambientale.

D’altra parte sebbene la scelta di coltivare in modo biologico sia più sana da un punto di vista qualitativo, è anche la più costosa, ricorda Pierluigi Nannini, tra gli allevatori consorziati che partecipano al progetto; tanto che lui che ha puntato sul biologico, tra tutte le razze ha scelto di allevare la Limousine – un bovino di origini francesi ormai da anni sul nostro territorio – che grazie alla stazza gli permette di ammortizzare le spese dei suoi 85 capi.
Ma il costo non è l’unico svantaggio dell’allevamento biologico perché a rendere difficile la vita degli agricoltori c’è anche la convivenza difficile con gli animali selvatici. Certo, le reali possibilità di contagio di malattie dagli uni agli altri non sono mai state accertate e c’è un costante controllo nelle aree di caccia degli animali selvatici rassicura Giovanni Stanzani, tecnico del progetto, il ché contribuisce a far rimanere questa scelta produttiva la migliore in termini di risultato; la stessa che il nuovo consorzio di carne di qualità dell’Appennino ha deciso di promuovere in un’ottica di tutela economica, ecologica e culturale del territorio.

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