Dicembre 2014
Laura Spaggiari
Nelle Georgiche Virgilio, parlando dell’inverno nelle campagne, descrive i contadini come “naviganti che hanno infiorato la poppa delle navi/tornate finalmente cariche nel porto, finalmente possono godere del frutto dell’estate, è tempo di cogliere le ghiande dalle querce/ e le bacche d’alloro e l’uliva e i mirti di sangue”.
Anche Pascoli come Virgilio riprende la metafora della campagna d’inverno come un grande mare: “e guardai nella valle: era sparito/ tutto! sommerso! Era un gran mare piano,/grigio, senz’onde, senza lidi, unito”.
Le piante sono scheletri e le case sono piccole barche in balia del nulla e soprattutto del freddo. Il Natale arriva come un’occasione per rimettere in moto il fermento assopito dall’inverno, i riti e i ricordi famigliari vengono a galla, religione e cibo diventano i protagonisti indiscussi.
Nelle campagne quindi nessuna corsa ai regali, ma un’insieme di regole propiziatorie da mantenere in vita anno dopo anno, intorno al focolare domestico e alla parrocchia del paese vicino.
I prodotti agricoli ovviamente erano al centro delle celebrazioni natalizie e di Capodanno, celebrazioni private e comunitarie che variavano di regione in regione. In Romagna le vecchie massaie la vigilia di Natale a mezzogiorno si cibavano di una misera zuppa di cavolo, consumata in piedi, e invitavano anche gli uomini di casa alla stessa penitenza, perché nel corso dell’anno non si soffrisse la stanchezza del lavoro. Sempre alla vigilia s’impastava il pane, che poi veniva mangiato, seppur raffermo, fino all’Epifania. Questo pane viene identificato come la Provvidenza, in grado di guarire infermi e salvare i pulcini dalle volpi.
La notte di Natale si accendeva il camino, detto il gran ciocco, che spesso si continuava a far ardere fino all’Epifania: gli ultimi carboni acquistavano potere, secondo le credenze popolari, contro il fuoco di Sant’Antonio e altri dolori.
Sempre in Romagna durante il pranzo di Natale il vino che restava nel boccale non bevuto lo si gettava vicino a una vite per garantire l’abbondanza di grappoli, così come si potava almeno una vite per propiziare l’abbondanza del prodotto. Nel riminese per antica tradizione natalizia a tavola dovreva essere stesa una tovaglia a ruggine di lino o canapone, stampata con caratteristici disegni a galletto o a uva da un macchinario antichissimo chiamato mangano. A Natale inoltre si curavano le bestie della stalla, soprattutto bove, asino e agnellini, come se fosse un omaggio agli animali del presepe. Qualcuno diceva che la notte di Natale gli animali parlassero fra loro, e allora era meglio farli mangiare abbondantemente in modo che parlassero bene del padrone. Il primo giorno dell’anno s’interrogava il futuro con tre fagioli che venivano tenuti sotto il cuscino.
Nella bassa ferrarese la vigilia di Natale si cenava anche con l’anguilla che si appendeva al soffitto della cucina per farla asciugare. Metà anguilla si cucinava in umido col prezzemolo, metà sulla brace. Bisognava girarla sempre, e ungerla con l’olio, con una penna d’oca. Il venticinque dicembre veniva considerato in tutta Italia il giorno del Pane, inteso come corpo di Cristo incarnatosi la notte di Natale a Betlemme (bet lehem, casa del pane): per questo era ed è ovunque tradizione, non solo in Romagna, mangiare dolci fatti di farina come il pangiallo a Roma, il pandolce a Genova, il panpepato a Ferrara e in Umbria, il panforte a Siena, il pandoro a Verona, il pane certosino a Bologna e, ovviamente, il panettone a Milano.
Di questi pani è buon uso metterne da parte un pezzetto, per mangiarlo il giorno di San Biagio (3 febbraio), onde preservarsi tutto l’anno dal mal di gola.
Nelle campagne del Veneto e dell’Alto Adige i contadini, per sapere come sarebbe stato il prossimo raccolto, mettevano in una padella arroventata 12 grani di frumento, uno per ciascun mese delll’anno: quelli che si aprivano al calore indicavano, agli occhi dei contadini, abbondanza, mentre quelli che si carbonizzavano presagivano carestia.
Natale era quindi un tempo di grande empatia tra l’uomo e la natura: infatti in Piemonte si diceva che i fiori seminati il giorno di Natale avrebbero avuto degli splendidi colori; a Napoli che l’aceto usato per condire l’insalata di rinforzo della Vigilia, versato sui garofani li avrebbe resi pieni di screziature; in Liguria che le foglie di alloro raccolte il 25 non si sarebbero seccate per mesi.
Nelle case emiliane si credeva negli effetti benefici e medicamentosi degli avanzi della cena della vigilia, burro e olio per curare tagli e bruciature e cera delle candele contro le contusioni, il vino per cicatrizzare le piaghe sulla schiena degli animali.
Nel Lazio le fanciulle indecise fra vari corteggiatori prendevano delle cipolle e scrivevano su ciascuna il nome dei potenziali mariti, poi le riponevano in un luogo buio e fresco. La prima cipolla che avesse germogliato, sarebbe stata quella col nome del prescelto. Ovviamente la notte di Natale era anche la notte per tramandarsi, oralmente, formule magiche e riti propiziatori, in gran segreto: da suocera a nuora, da madre a figlia.
Vista la scarsità di prodotti agricoli, dovuta alla stagione, il maiale era la base lipidica e proteica dei cibi tipicamente natalizi. Era un animale talmente importante per la sussistenza di tutta la comunità che si celebrava anche una festa a lui dedicata, denominata le nozze del porco, festeggiata nel giorno del 17 gennaio, in occasione della festa di S. Antonio Abate (infatti raffigurato nell’iconografia sacra insieme ad un maiale); festa che consisteva in una uccisione collettiva di alcuni maiali allevati dall’intera comunità e poi suddivisi tra tutti.
Natale era quindi il carnevale santo delle campagne, dopo la messa si andava a letto con la pancia piena ma con la malinconia del tempo che scorre inesorabile e nell’attesa del prossimo Natale.
Nell’immagine: Famiglia di contadini (Van Ostade Adriaen Jansz)