“Non me ne importa un fico secco”: occhio ai (falsi) luoghi comuni

Settembre 2015

Visto il successo della nostra precedente rubrichina dedicata ai fichi, ecco la seconda puntata sugli svariati modi di dire generati dal fico.

Ancora oggi si suole dire: “non me importa un fico secco”, versione edulcorata del cialtrone e fascista “me ne frego” che purtroppo tiene banco ancora, in aree retrive del nostro Paese. Oppure: “fare la nozze con i fichi secchi”, che sarebbe roba da poveracci…

Incomprensibile, a parte i “parvenu” passati troppo in fretta dal pagliericcio alla moquette, l’insano disprezzo per i fichi. Difficile trovare una storia, quella dei fichi, altrettanto millenaria e popolare, per salubre bontà se mangiati freschi, oppure seccati al sole sin dall’antichità: dessert vitaminico anche per i più poveri.

Sul tema, abbiamo chiesto lumi all’amico Tugnazz di Bagno Paradiso, bagnino di Cesenatico che ha ancora nel sangue la memoria dei suoi avi, romagnoli anarchici che i preti e i potenti di turno proprio non li potevano vedere, ma che consideravano Gesù il primo socialista libertario. “Basta leggere i vangeli – sostiene Tugnazz -. Non è una meraviglia quel Nazzareno che sbaracca mercati e mercatini ladreschi del Tempio? E poi Gesù ne sapeva molto di agricoltura. Pensate alla parabola del granello di senape: il seme più piccolo che però origina una pianta fruttifera di tre metri. E poi la parabola del fico, esemplare nel significato (Vangelo di Luca, 13, 6- 9). Un tale aveva un fico che non dava frutti e disse al contadino: taglialo. Ma si sentì rispondere: dammi il tempo di dissodare e concimare il terreno intorno al fico. Vedrai, al tempo, i suoi frutti”.

Cultura, come coltura, viene dal latino “colere” che vuol dire, letteralmente, coltivare i campi. Se non li lavori, nel tempo e con fatica, cosa mai potrai raccogliere?

Il Passator Cortese

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