Calo produttivo delle albicocche in Emilia Romagna

giugno 2015

Una coltura che soffre della mancanza di innovazione varietale e teme competitori stranieri

IMOLA – L’albicocca è un frutto di facile consumo perché non si sbuccia, non sgocciola e sporca meno della pesca, si presta ad un consumo diverso da quello prettamente domestico e poi è bello, attraente per la colorazione e la forma rigonfia. Tutti vantaggi che ne facilitano la commercializzazione e la distribuzione.

L’albicocca è stata portata nel Mediterraneo dagli Arabi nel I secolo d.C. ma è originaria della Cina e dell’Asia centrale dove era coltivata fin dal 3000 a.C. Secondo altri arrivò in Europa dopo la spedizione di Alessandro Magno. L’albero cresce spontaneo anche sull’Himalaya attorno ai 3000 metri di altezza grazie alla resistenza del fusto verso il clima rigido. Fin qui la descrizione di un frutto buono e saporito che arricchisce le nostre tavole ma da sempre anche su questa “rotondità” si decidono produzioni, consumi, prezzi e strategie per il mercato futuro. In Italia secondo i dati Cia se ne producono in annate normali dalle 200 alle 250 mila tonnellate.
Il nostro Paese, per inciso, è il quinto produttore al mondo dopo Turchia, Iran, Uzbekistan e Algeria. Le regioni più importanti per la produzione, che rappresentano ognuna circa il 25% della produzione nazionale sono l’Emilia Romagna, in particolare le zone del Comprensorio Imolese e la Vallata del Santerno, la Campania e la Basilicata. I concorrenti più agguerriti sono Francia, Spagna e Grecia, i tre principali Paesi esportatori che riescono a mantenere standard medi qualitativi più elevati di quelli italiani. “La Francia – precisa Claudio Buscaroli del Crpv (Centro ricerche produzioni vegetali) di Imola – ne produce meno dell’Italia ma di migliore qualità mentre la Grecia, ad una bassa gradevolezza, risponde con una quantità maggiore. Il problema vero però è, e sarà sempre di più, la Turchia che produce circa 650.000 tonnellate di albicocche e ricordiamoci che questa nazione è entrata a far parte della Comunità europea. In prospettiva, la sua concorrenza potrebbe interessare anche altre tipologia di frutta”.

Ma rimaniamo ad oggi ed ascoltiamo i produttori. “Quest’anno raccoglieremo almeno il 50% – 60% in meno di albicocche rispetto allo scorso anno – dice Mirca Bertuzzi che possiede 22 ettari di terreno nelle vicinanze di Imola e raccoglie mediamente 3.000 ql di albicocche.
E c’è anche chi parla di un calo del 90%. Ha inciso la stagione con piogge abbondanti e durature durante la fioritura e in prossimità della raccolta. Il frutto si è spaccato ed è caduto, il danno è importante”.

In otto mesi i campi si sono inondati quattro volte in pianura e in tre giorni sono caduti 130 millimetri di pioggia. “Non solo brutto tempo – riprende Maurizio Zanchini (nel tondo), produttore della Vallata del Santerno che di ettari ne ha 12. Anche un progressivo abbandono della campagna e i costi sempre troppo alti. Stiamo rischiando di perdere una realtà tipica ma, in generale, stiamo impoverendo il tessuto locale che è formato, non solo da noi agricoltori, ma anche da un indotto. Dobbiamo valorizzare la nostra collina che è ricca di viti e albicocco.
Ormai non c’è neanche più reddito per il fieno”. Dunque, il disboscamento delle campagne italiane che porta frutta dall’estero, il lento abbandono delle campagne, il crollo dei prezzi pagati agli agricoltori che non riescono più a coprire neanche i costi della produzione, una progressiva riduzione dei consumi da parte delle famiglie. Poi le problematiche fitosanitarie. “Questo è un frutto minore – dice ancora Bertuzzi – e quindi è meno interessante per le grosse aziende produttrici di fitofarmaci, non conviene investire in ricerca e sviluppo di nuovi prodotti per la difesa contro le avversità. Chi coltiva è più esposto, ad esempio, al capnodio, il famigerato insetto, un coleottero che ha provocato, e provoca ancora, notevoli danni all’albicocco.

A seguito di un incontro che lo scorso anno abbiamo avuto come giovani agricoltori di Alleanza per l’Agricoltura con l’allora assessore regionale all’agricoltura Tiberio Rabboni e i tecnici del Servizio Fitosanitario regionale, è partito un progetto in collaborazione con l’Università di Bari ma i tempi sono lunghi. Hanno monitorato in questi giorni le piante e hanno eseguito diversi rilievi ma risultati tangibili li avremo, forse, solo entro l’anno. Sono progetti di medio e lungo periodo. I problemi, però, noi li abbiamo oggi”. Insetti a parte, si potrebbe pensare di cambiare le varietà? “Fino a dieci anni fa – interviene ancora Buscaroli – il grosso della produzione si concentrava tra fine giugno e il 20 luglio.
Oggi, grazie al miglioramento genetico, il periodo di raccolta si è esteso da metà maggio a metà agosto e in un futuro non lontano si arriverà fino a settembre. In questo modo potremmo sempre offrire albicocche al consumatore che non comprerebbe più frutta precoce in arrivo da altri paesi”.
Ma in Italia si investe ancora poco nell’innovazione varietale. “Negli ultimi anni – dice Bertuzzi – le innovazioni sono arrivate dalla Spagna che ci ha già rubato tanto mercato. C’è molto da imparare da loro. Perché non copiamo chi è più bravo? Producono a costi più bassi e sono concorrenziali con noi. Come fanno”?

Ma torniamo alle innovazioni varietali. “Il lavoro di selezione che stiamo portando avanti – prosegue Buscaroli – è favorito nella zona della Vallata del Santerno grazie alle condizioni pedoclimatiche peculiari in questo “paradiso dell’albicocca”, zona ad alta vocazione in cui questo frutto viene coltivato fino a 350 metri di quota, su terreni che si estendono per circa 1.400 ettari, il 10% dell’intera superficie nazionale destinata alla coltura delle albicocche”.
Qui il primo albicoccheto industriale ha fatto la comparsa nel 1870 e da allora alcune varietà come la Bella d’Imola e la Precoce Cremonini sono state abbandonate. Il prodotto tipico della Vallata è oggi una produzione sempre più di nicchia, la Reale d’Imola o Mandorlona è insuperabile per qualità ma difficile da coltivare e la Tondina di Tossignano ha frutti molto piccoli ma eccezionali. Per molti produttori queste varietà garantiscono continuità ma sono marginali, poco ricercate e molti di loro non intende più produrle. “Noi vorremmo tornare a valorizzarle in una linea di frutti antichi – precisa Buscaroli – grazie ad un Progetto dedicato che parte dalla Coop Estense e che interesserà anche le altre due cooperative del distretto adriatico che intendono unirsi in un’unica grande realtà”. Tutto questo mentre è ancora in essere l’iter per l’ottenimento dell’Igp (Indicazione geografica protetta). Certo il marchio è un riconoscimento importante ma da solo non basta. “È necessario – conclude Buscaroli – far conoscere i nomi e le caratteristiche delle diverse varietà, spesso sconosciuti ai consumatori. Il lavoro che stiamo portando avanti è ancora oggi come un anno fa, finalizzato a stabilizzare e variare la produzione e a costruire linee di prodotto che garantiscano immediata riconoscibilità dei frutti di qualità da parte del consumatore”. Insomma, l’obiettivo è albicocca più bella, più buona per più tempo.

Romagna, terra dell’albicocca

La coltura, dapprima localizzata in pianura e negli orti imolesi che circondavano la città, fu poi estesa ai terreni collinari. Nel Comprensorio Imolese le prime coltivazioni di albicocco si svilupparono a Casalfiumanese circa un secolo fa. Nel 1870 furono piantate a titolo sperimentale da Mario Neri, colto divulgatore e ricercatore sperimentale, nel podere Vallette a Pieve S. Andrea. Proprio in queste colline si sono sviluppate aziende altamente specializzate, che hanno valorizzato terreni fino a ieri marginali o di calanco. Anzi, proprio la coltura dell’albicocco ha consentito lo sfruttamento dei calanchi meno scoscesi, portando ricchezza là dove fino a ieri non era possibile nemmeno il pascolo. La produzione nazionale di albicocche nell’ultimo decennio è quasi raddoppiata e nella Vallata del Santerno la superficie coperta è in maggior parte nel territorio di Casalfiumanese. La coltura ha costituito, e costituisce, una delle principali fonti di reddito per le aziende agricole e ha senz’altro contribuito ad arginare l’esodo rurale e il conseguente degrado ambientale. Alcune delle varietà più rinomate, la Reale di Imola e Bella di Imola, già nel nome dicono quanto l’albicocco debba a questa terra.  

L’import e l’export del frutto

Nel 2014 l’export di albicocche, secondo i dati del Cso (Centro Servizi Ortofrutticoli), è notevolmente incrementato rispetto al basso valore 2013, posizionandosi sopra le 25.000 tonnellate complessive, +62% rispetto ai volumi registrati l’anno precedente. I mercati più rappresentativi di riferimento rimangono i Paesi dell’Unione europea che, anche nel 2014, costituiscono il 94% sul totale. Il mercato tedesco ha assorbito il 45% del totale destinato all’estero come nel 2013 ma con un incremento del volume pari al +60%.
Al secondo posto si conferma l’Austria con volumi solo di poco superiori al 2013, mentre seguono con incrementi nettamente maggiori sullo scorso anno, le spedizioni in Slovenia, Croazia e Rep. Ceca. Le esportazioni verso i mercati dei Paesi fuori Europa nel 2014 hanno coperto il 5% del totale, una quota leggermente inferiore rispetto agli anni più recenti. Tra questi primeggia la Svizzera mentre la Russia, prima dell’attuazione dell’embargo aveva assorbito quantitativi nettamente maggiori nella fase iniziale della stagione. Tra le altre destinazioni il prodotto è spedito prevalentemente verso gli Emirati Arabi Uniti e paesi africani (Libia ed Egitto).

Nel 2014 l’Italia ha importato il 7% in più di albicocche rispetto alla stagione antecedente. La frutta è arrivata dai paesi dell’Unione europea, confermando la contrazione del prodotto in entrata dai Paesi nordafricani.
Sempre nel 2014 sono incrementati i volumi dei nostri principali fornitori Francia e Spagna rispettivamente del +14% e +10% rispetto al 2013; poco meno del 60% del totale complessivo è prodotto francese, che continua ad essere il primo fornitore nonostante una riduzione della propria quota di mercato a cui segue il prodotto di origine spagnola che è arrivato a rappresentare una quota prossima al 40%. Al di fuori dell’Unione europea, l’Italia ha importato quantitativi molto contenuti prevalentemente dal Marocco.

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