Il vino è la “tetta” dei vecchi: antico detto romagnolo…

vino rosa

Chiediamo innanzitutto perdono alle lettrici (anche a nome di Tugnazz) per questo titolo felliniano: tornare a dire che “e vèn l’è la tèta di vècc” (il vino è il latte dei vecchi) non è per niente insano, ribadisce anzi un antico buon senso comune (da non confondersi con il luogo comune, spesso stupido). Detto che fa il paio con un altro secolare proverbio romagnolo: “Qùand la bèrba la mèt e stupèn, làsa la dòna e bèda a e bòn vèn” (quando la barba si imbianca, lascia stare le donne e pensa al buon vino): in questo modo si evitano indecorose complicazioni senili e cantonate (cioè “pataccate” di varie natura).

Il vino è tema conduttore della civiltà contadina ed anche della civiltà occidentale, amante delle vitivinicoltura (dove non c’erano le viti si rimediava con fermentazioni e distillazioni alcoliche da altri buoni prodotti della terra). Poi, in Romagna (e non solo) il vino, nella parlata popolare, diventava “e bè”, il bere: dove il verbo bere diventava direttamente sostantivo. Bere vino, non acqua. Ma non perché i romagnoli fossero beoni incalliti: semplicemente in passato l’acqua era molto spesso inquinata (fiumi, pozzi e torrenti erano loro malgrado fogne a cielo aperto con gran rischio di malattie ed epidemie).
Beninteso, non stiamo certo rifacendo alcun elogio di deplorevoli sbornie, ci mancherebbe. Vi invitiamo soltanto a restare ancorati ad un antica saggezza : niente è veleno, tutto è veleno: dipende dalla dose.

È storia antica: la racconta anche la Bibbia, libro della Genesi: fu il buon Noè a prendersi la prima solenne sbornia dell’umanità. E secondo l’irriverente “vulgata” di Tugnazz, Noè dopo la gran bevuta, non ritrovando la via di casa, disse: “Otscia, i m’à spustè la cà” (mi hanno spostato la casa).

Bevete e brindate, dunque, ma con moderazione.

Il Passator cortese

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