Luglio 2014
Mara Biguzzi
DALLA REDAZIONE – Secondo le statistiche la popolazione italiana invecchia: la vita media è arrivata a 79,4 anni per gli uomini e 84,5 per le donne.
Il processo di invecchiamento progressivo comporta per la società un cambiamento della sua struttura e le politiche di welfare e pari opportunità devono necessariamente tenerne conto perché tale popolazione costituisce una parte importante della comunità, sia dal punto di vista numerico che dal punto di vista del contributo che possono apportare alla crescita economica, soprattutto in relazione alle recenti riforme del mercato del lavoro che hanno prolungato la vita lavorativa delle persone.
Nel 2000 l’Unione europea (direttiva 2000/78/CE) ha emanato un provvedimento che proibisce le discriminazioni sul posto di lavoro basate sull’origine etnica e sulla razza, religione o credenza, disabilità, età e orientamento sessuale, al fine di promuovere l’uguaglianza tra gli uomini e le donne sul posto di lavoro.
Purtroppo ad oggi si registra il permanere di un differente trattamento in relazione all’età, sia nel mercato del lavoro, sia nella società. Tale fenomeno viene chiamato Ageism e si riferisce alle discriminazioni per età. In questo momento storico l’Ageism coinvolge i giovani e gli anziani.
La “buona notizia” per i giovani è che crescendo escono da una categoria discriminata per entrare nella categoria non discriminata degli adulti; questi ultimi, invece, crescendo entrano nella categoria di età discriminata degli anziani.
L’età è una classe di appartenenza utilizzata come fattore per differenziarsi dagli altri, inoltre costituisce una sorta di “pregiudizio democratico, al contrario delle altre forme di pregiudizio, poiché tutte le persone possono diventarne vittima, essendo il ciclo di vita uguale per tutti.
Ciò accade a causa degli stereotipi sociali che pongono come punto di riferimento il prototipo positivo dell’adulto (in particolare l’adulto maschio, bianco e in buona salute). La categoria degli adulti è maggiormente inserita nel sistema produttivo, forniscono sostegno economico con il loro lavoro e godono di uno status sociale più elevato delle altre. Inoltre, socialmente si ritiene che siano più decisi e diretti, più orientati al raggiungimento dei risultati, più capaci di cogliere le opportunità, più coscienziosi ed emotivamente stabili dei giovani e degli anziani.
Di fronte a tale situazione, sia gli anziani che i giovani si sentono più discriminati degli adulti, ciò è anche dimostrato dal crescente fenomeno degli “scoraggiati”, persone disoccupate che hanno cessato di cercare lavoro perché convinte di non poterlo trovare perché troppo giovani o troppo vecchie rispetto alle richieste.
Quando si inizia ad invecchiare?
Una ricerca ha verificato attraverso interviste, che la percezione della vecchiaia viene in media collocata dai 62 anni e la fine della giovinezza poco dopo i 40 anni. Inoltre, la percezione dei confini tra le classi di età varia dalla nazionalità e dalla cultura di riferimento della persona. Infine, tanto più le persone invecchiano, tanto più tendono a spostare avanti nella vita la fine della giovinezza e l’inizio della vecchiaia.
La categoria degli adulti (dai 35 ai 60 anni) appare elevata e multiforme, ma i favoriti appaiono gli appartenenti alla categoria sotto i 50 anni, poichè si ritiene abbiano acquisito una necessaria esperienza e competenza nel lavoro, siano nel pieno delle forze psicofiche e perciò disponibili a ritmi di lavoro serrati. Questo dimostra come la visione dell’anziano sia guidata da stereotipi, e lo stereotipo negativo relativo all’anzianità è legato al crescente deterioramento delle capacità cognitive e relazionali, le quali progressivamente riportano la persona alla condizione infantile di dipendenza. In molte situazioni si assistono a commenti relativi agli stereotipi che vengono utilizzati per ampliare la separazione tra classi e per aggredire l’intera categoria: per esempio nei forum online i commenti degli utenti vertono spesso sulla lentezza dei movimenti degli anziani, oppure la pensione, vissuta dai giovani come una “rendita ingiustificata”.
Questo processo di esclusione dell’anziano dalla società, con l’attribuzione del pregiudizio di essere un “parassita”, perché percepisce una pensione (rendita legittima dopo decenni di lavoro), oppure usufruisce maggiormente del sistema socio sanitario, con commenti del tipo: ”perché si ammala di più”, escludendo da tale giudizio il fatto che l’anziano ha pagato con le sue tasse i servizi e continua a pagarli con la pensione, ha origine in alcuni cambiamenti sociali che hanno portato la percezione delle persone da “sagge” a “inutili”.
Tra le trasformazioni più rilevanti si possono sottolineare il progresso tecnologico, che privilegia l’innovazione all’esperienza, il rarefarsi della famiglia con il suo ruolo di supporto, la diffusione della conoscenza che ha estromesso l’anziano quale depositario del sapere.
Gli stereotipi
Il pregiudizio più comune che emerge a seguito di tali atteggiamenti è che la vecchiaia viene utilizzata come sinonimo di incompetenza, rigidità mentale, orientamento al passato, mancanza di progettualità, chiusura al cambiamento, escludendo completamente la capacità di utilizzare la propria esperienza per risolvere problemi, ecc..
Dal punto di vista del mercato del lavoro, da uno studio condotto da ricercatrici del Laboratorio Armonia della Sda-Bocconi, emerge che l’ipercompetitività dei mercati ha portato le aziende ad adottare una logica “giovanilista”, in cui le carriere si stanno riducendo nei tempi, per cui vengono formate classi di manager sempre più giovani, con possibilità di avanzamento sempre più breve.
La conseguenza di tale comportamento è l’inizio della “vecchiaia lavorativa” a 45 anni e l’Ageism si concretizza con prassi non scritte, che tendono a disinvestire nello sviluppo di questi lavoratori e lavoratrici, producendo di fatto la loro emarginazione nei processi produttivi.
Questo fenomeno produce una maggiore vulnerabilità di tale classe di lavoratori e lavoratrici nel caso di perdita prematura dell’occupazione nei processi di riduzione del personale, in problemi di reinserimento, ricorso a pre-pensionamenti o esodi per ridurre il costo del lavoro.
Un altro elemento interessante nello studio degli stereotipi è l’attribuzione dell’errore. Se un giovane commette un errore, esso viene attribuito all’inesperienza e alla situazione contingente, mentre se lo stesso errore viene commesso da un anziano, esso viene attribuito ad un tratto stabile di personalità con qualità crescenti (è l’inizio della fine!, ha l’alzaheimer!).
Spesso non viene tenuto in dovuto conto dalle aziende che il progressivo esodo di persone con determinate esperienze e l’introduzione di giovani talenti, si è rivelata disastrosa in molte realtà, perché ha eliminato le professionalità e le conoscenze allo scopo di ridurre i costi, costringendo a volte, gli imprenditori a richiamare i fuoriusciti.
Le lavoratrici donne
In questo quadro le lavoratrici sono maggiormente penalizzate poiché alla discriminazione di genere (che perdura nel tempo) si aggiunge la discriminazione per l’età. Le ricerche mostrano che le donne sono più penalizzate perché considerate, anche dai coetanei, meno gradevoli, meno competenti, meno intelligenti e meno indipendenti con l’avanzare dell’età. Attraverso i media, cioè il mezzo attraverso il quale si trasmette conoscenza ai giovani, vengono trasmessi questi stereotipi negativi nei confronti delle donne.
Nelle trasmissioni di intrattenimento sono pressochè assenti le donne over 50, se appaiono spesso ricorrono alla chirurgia plastica per apparire più giovani, questo atteggiamento non è però richiesto agli uomini che sfoggiano le rughe e capelli bianchi quasi con orgoglio!
Inoltre le donne over 50, sia al lavoro che in televisione, sono valutate più positivamente per quanto riguarda la capacità di accudimento, il calore e la sensibilità, tutte percezioni coerenti con lo stereotipo della nonna. Se la donna non corrisponde a questo stereotipo “buono”, viene collocata nello stereotipo “strega” per cui diventa una donna acida, rigida, ecc,. In altre parole, la donna anziana che segue le sue vocazioni e passioni viene percepita negativamente: le donne si devono prendere cura di qualcuno (figli, nipoti, genitori, ecc..) per poter essere considerate positivamente.
Proprio grazie a tale stereotipo le conseguenze sul lavoro delle donne sono: un tempo per la carriera più ridotto di quello degli uomini, poiché si entra in una finestra a “rischio maternità” che implica un disinvestimento da parte delle imprese sulla lavoratrice; il tetto di cristallo che comunque limita la possibilità di carriera delle donne; il lavoro di cura, spesso non condiviso con il partner che favorisce l’uso di part time.
A causa di tale quadro, i contributi pensionistici delle donne risultano negli anni inferiori, con conseguente maggior rischio di povertà e di dipendenza in vecchiaia. Infine, le donne vivendo statisticamente più degli uomini sono spesso sono vittime di sindromi di senilità, perciò più vulnerabili e questo aggrava la conferma dello stereotipo negativo e dei pregiudizi nei loro confronti.
In conclusione…
In conclusioni una buona politica sulle pensioni deve cominciare da quando si nasce e le opportunità dovrebbero essere equamente distribuite nel mercato del lavoro, in modo tale da consentire alle persone di mettere in atto le proprie attitudini e competenze indipendentemente dall’età, genere, ecc..
Il problema non è tanto lavorare più anni (fino a 67 anni) ma lavorare meglio fino a quell’età.
Inoltre attraverso la formazione, a scuola e nei luoghi di lavoro, favorire l’emergere di una cultura di conoscenza della differenza di età per consentire alle persone di modificare stereotipi arcaici e pregiudizievoli.
Investire sui servizi sanitari e sociali affinchè la cura degli anziani non gravi solo sulle famiglie, e di conseguenza quasi esclusivamente sulle donne, ma che sia sostenuta da una comunità per la quale l’anziano ha e continua a contribuire attraverso le sue tasse.
Sostenere le politiche di occupazione dei giovani anziché prolungare l’età lavorativa, altrimenti gli attuali giovani saranno i poveri anziani di domani, più a lungo sono disoccupati minori contribuiti riusciranno a “conquistarsi” nel loro futuro.
Il sindacato può attivare un percorso virtuoso in tal senso attraverso la sensibilizzazione alla problematica che favorisca l’inclusione degli anziani e non la loro discriminazione.
Inoltre, il sindacato può svolgere una ruolo importante di catalizzatore del cambiamento culturale nei confronti della figura dell’anziano con gli interlocutori istituzionali, scolastici, ecc.. chiedendo progetti, sperimentazioni e interventi per favorire la loro inclusione della comunità quali soggetti attivi che sono.
Gli anziani di oggi vissuti a cavallo tra due epoche, genitori sotto processo, sperimentano il dilatarsi del tempo e devono imparare a farne tesoro, prima di affrontare l’inesorabilità successiva del tempo vitale.
Le tutele sociali. Il desiderio sessuale inesausto. La possibilità di sviluppare nuove relazioni e di soddisfare le proprie aspirazioni culturali oltre una soglia anagrafica considerata fino a ieri insuperabile: perché gli anziani di oggi devono avvertire tutto ciò come una colpa?
I beni che definiscono la vera qualità della vita – salute, istruzione, diritti – sono in qualche modo “legati a servizi collettivi, beni comuni. E questo, piaccia o no, è un innegabile riscatto dei valori nei quali molti di noi hanno creduto, a partire dagli anni Sessanta e Settanta”. Se pure sono cresciute le disuguaglianze di reddito e le ingiustizie sociali, su alcuni terreni sostanziali la nostra generazione può cantar vittoria.
Certo l’Italia oggi è il paese in cui si discute piuttosto di rottamazione. E l’immagine del giovanile pensionato che macina ottimista chilometri su chilometri di corsa per tenere in allenamento i muscoli e il cervello si scontra con quella dei suoi coetanei esodati, dichiarati vecchi anzitempo e abbandonati a se stessi.
L’Italia fanalino di coda della demografia e del debito pubblico deve diviene un potenziale laboratorio sociale di iniziative dal basso che suppliscano alla ritirata dello Stato e dei privati. Il paese ideale per vivere la riscossa dell’Età del Bis, coltivandone le vocazioni. Senza avere paura degli orologi.
È questo il tempo delle “Pantere grigie” alla riscossa!