Gennaio 2016
Alessandra Giovannini
DALLA REDAZIONE – Piace, in particolare, a quei 4 milioni e mezzo di vegetariani e vegani italiani (il 7,1% della popolazione) cresciuti del 15% nel 2014, che hanno abbandonato carne e pesce o altri prodotti di origine animale, per uno “stile di vita” che è diventato motivo di orgoglio.
E se a dirlo è l’istituto di ricerca Eurispes nel Rapporto 2014, a confermarlo sono gli studi condotti da GfK Eurisko presentati durante l’Expo, che hanno messo in evidenza la riduzione del consumo di carne negli ultimi 6 anni (il 18,5% dei cittadini ne mangia meno di una volta alla settimana) da parte di due milioni di italiani e la scelta dei principi vegan per circa il 3% di consumatori (quasi 1.150.000) tra i 18 e i 64 anni. Lo studio, in particolare, ha fotografato i cambiamenti nelle abitudini alimentari degli italiani negli ultimi 20 anni prendendo in considerazione salute, cucina, etica e rispetto degli animali.
Dai dati risulta che oggi ben il 16% degli italiani segue almeno un regime alimentare particolare, a partire dalla cucina vegana e da quella vegetariana che raccolgono insieme consensi per il 9% degli intervistati (3% vegani e 6% vegetariani) seguite dal macrobiotico e dal crudismo. Oltre la metà dei consumatori, sottolinea lo studio, si è avvicinata al vegetale nell’ultimo anno (54%), e un quarto dei vegetariani “storici” ne ha aumentato il consumo.
Il vegano, in particolare, vive soprattutto a Nord-Ovest (36%), abita in grandi città (13%), occupa posizioni dirigenziali (25%) ed è una donna (58%) tra i 45 e i 54 anni (28%), spesso in possesso di una laurea (17%).
Per alcuni, fondamentali sono le motivazioni etiche di rispetto per la vita animale, per altri valgono le ragioni ecologiche e salutistiche, la curiosità, la voglia di sperimentare, la digeribilità, il gusto, la necessità di variare la dieta.
Nei supermercati sono sempre più numerosi gli scaffali dedicati a prodotti per vegetariani e vegani, nei bar e ristoranti si vedono sempre più spesso panini o menu vegetariani, escono continuamente nuove riviste specializzate, le ricette green sono ormai migliaia e alla portata di tutti, si moltiplicano le manifestazioni dedicate a queste due categorie organizzate in diverse città come la Notte Veg che ha coinvolto diversi comuni italiani o la Mi-Veg presentata a Milano o il Vegan Day che si è svolto a Padova o ancora il Festival Parma Etica che ha trasformato per alcuni giorni la città nella “capitale vegana d’Italia”, per non parlare dei corsi di cucina, eventi, club, forum online, pagine Facebook e recentemente anche la nascita delle prime farmacie per vegetariani e vegani.
In questi mesi, poi, è stato presentato il Vegorino Romano, il primo alimento stagionato vegetale, crudo, fermentato con probiotici di calcio e magnesio mentre a Torino ha aperto il primo Fine Vegan Fast Restaurant (si chiama Coox) che propone lasagne al sugo di seitan e torte Sacher senza burro.
Anche chi compra vegano chiede qualità e certezza di quello che acquista e allora ecco VeganOk, la prima società di certificazione etica per prodotti vegan nata in Italia dal 2009, che ha già certificato 500 aziende.
Ma allora quando, dove e cosa mangiano gli italiani?
Sempre secondo lo studio GfK Eurisko, il 62% della popolazione si ispira alla dieta mediterranea (nel 1995 erano il 41%), è più attenta all’alimentazione, preferisce pasti slow, rinuncia al menù completo a pranzo ma soprattutto la sera, mentre fa con più piacere colazione e gradisce il fuoripasto.
A tavola si spende di più per frutta e verdura (consumata circa 5 volte alla settimana), cereali e pesce. La pasta è consumata 4 o 5 volte alla settimana mentre la carne, se una volta rappresentava un terzo del budget alimentare, oggi viene consumata 3 volte alla settimana. Seguono formaggi e salumi, il prodotto di cui il maggior numero di italiani ha diminuito il consumo nel tempo, i dolci, snack, bevande gassate, pane, surgelati e carne rossa.
Dunque, se da una parte aumenta il consumo di prodotti a base vegetale, dall’altra sta calando sensibilmente l’acquisto della carne tanto che, mentre se una volta rappresentava un terzo del budget alimentare ora si arriva appena ad un quinto.
A questo punto vale la pena ricordare che, secondo i dati lanciati da Assocarni e Assica (Associazione industriali delle carni e dei salumi) il settore agroalimentare in Italia contribuisce a circa il 10-15% del prodotto interno lordo annuo, con un valore complessivo pari a circa 180 miliardi di euro.
Di questi, circa 30 miliardi derivano dal settore delle carni e dei salumi, includendo sia la parte agricola che quella industriale. I settori considerati danno lavoro a circa 125.000 persone a cui va aggiunto l’indotto.
In tutto questo rincorrersi di dati non ha certo aiutato il recente allarme lanciato dall’Organizzazione mondiale della Sanità secondo il quale consumare salumi, insaccati e ogni genere di carne lavorata può causare il cancro e probabilmente anche mangiare carne rossa.
Subito sono seguiti gli interventi di associazioni, enti e dello stesso Ministro della Salute Beatrice Lorenzin che ha sottolineato come “Occorre guardare a quale è stata la nostra linea fino adesso: promuovere la dieta mediterranea, che è corretta dal punto di vista dei nutrienti e prevede una piramide”, in cui viene inclusa anche la carne rossa, che va però prediletta fresca. Queste – ha ribadito – sono raccomandazioni dell’Oms ma al momento se tutti adottassero stili di vita sani, in primis la dieta mediterranea, avremmo un calo dell’incidenza di malattie importanti come il diabete”.
L’Assocarni e Assica, da parte loro, hanno rilevato come “gli allevamenti italiani producono carni più magre e di migliore qualità rispetto a quella di allevamenti di altri Paesi. E la qualità delle carni trasformate è ben diversa dalle produzioni nord europee”.
Luigi Scordamaglia, presidente di Federalimentare e amministratore delegato di Inalca (controllata del gruppo Cremonini per la produzione di carni bovine) invita i consumatori a continuare a mangiare quello che mangiano in Italia e a scegliere sempre prodotti italiani.
Il presidente nazionale della Cia, Dino Scanavino, ha spiegato che lo studio dell’Oms non ha tenuto conto degli stili di vita e delle peculiarità di consumo nei diversi Paesi e in Italia il consumo di carni e salumi è metà della soglia di rischio indicata dalla stessa Organizzazione mondiale della sanità.
“La zootecnia – ha ammesso Scanavino – oggi vive una crisi fortissima, è in forte sofferenza, ma resta un settore strategico per il nostro Paese: il settore delle carni e dei salumi “made in Italy” vale tra i 30-32 miliardi di euro (di cui l’11% rappresentato dall’export). Non è la prima volta che si colpisce la zootecnia e il settore dell’allevamento con allarmi ingiustificati, almeno per l’Italia. Successe con la Bse, la cosiddetta mucca pazza, accadde con l’influenza aviaria: una psicosi che determinò il crollo del settore avicolo senza nessuna evidenza scientifica. Ecco perché vogliamo evitare che tutto questo si ripeta oggi. Come agricoltori siamo impegnati a offrire ai consumatori cibo sano e di qualità e oggi sentiamo la necessità di rinsaldare quel legame fiduciario garantendo i nostri prodotti. Semmai l’Oms dovrebbe vigilare sull’uso di mangimi di dubbia qualità, su stili di consumo che nulla hanno a che vedere con l’Italia”.
Dello stesso parere è Andrea Mongiorgi, socio dell’Azienda Agricola Mongiorgi che segue una realtà a Castelfranco Emilia in provincia di Modena che conta una media di 50-60 capi bovini da carne e abbraccia una filiera che comprende allevamento, spaccio aziendale, rifornimento ai ristoratori e agriturismo.
“L’Italia avrà mille difetti – dice Mongiorgi – ma i controlli sanitari nell’agroalimentare sui nostri prodotti c’è, eccome. Quello che manca, invece, è il controllo su quelli che arrivano in Italia. Io dico sempre mangia sano, mangia italiano. E le persone che vengono nella mia azienda sanno come allevo i miei animali, sanno quello che mangiano e comprano sulla fiducia. Oggi, poi, il consumatore è più attento, più preparato. Le famiglie giovani con bambini preferiscono andare direttamente dal produttore e, giustamente, mangiano meno carne rossa ma la mangiano buona sapendo soprattutto cosa comprano. Io, prima di tutto, metto in tavola la carne che seguo fin dalle stalle e la voglio sana. Non possiamo mettere etichette come per il vino che ci possono distinguere subito come produttori, la carne apparentemente è tutta uguale, noi ci mettiamo la faccia”.
E dell’importanza del rapporto di fiducia con il consumatore ne parla anche Giovanni Bettini, presidente della Clai, la Cooperativa agricola imolese che dal 1962 opera sia nel settore salumi, con una particolare specializzazione nel segmento salame, che in quello delle carni fresche bovine e suine. Una realtà che ha annunciato in questi giorni un aumento medio del 5,2% ai dipendenti sugli importi base del premio per obiettivi, nel quadriennio 2016-2019. E di lavoratori attivi la Clai ne ha 441 e, con un fatturato di oltre 220 milioni di euro (2014), rappresenta una delle realtà più interessanti dell’agroalimentare italiano. È presente in tutte le regioni italiane e negli ultimi anni ha sviluppato la sua presenza all’estero, soprattutto nel comparto dei salumi.
“È proprio il rapporto di fiducia con il consumatore – sottolinea Giovanni Bettini – che ha portato oggi questi risultati positivi per i dipendenti della cooperativa. È indubbio che stiamo assistendo ad un cambiamento nei consumi della carne ed è evidente la difficoltà economica di tante famiglie, ma la nostra cooperativa ha saputo nel tempo mantenere buoni livelli di vendita e commercializzazione grazie al valido equilibrio tra qualità e prezzo”.