Claudio Ferri
Intervista a Herbert Dorfmann, membro della Commissione agricoltura e sviluppo rurale del Parlamento Europeo
On. Dorfmann, sul capitolo agricolo l’Ue ha annunciato un taglio ai fondi Pac: c’è margine per recuperare questa impostazione, vista l’importanza strategica che occupa il settore dal punto di vista socio-economico e ambientale?
Quella del Commissario Günther Oettinger va presa per quello che è, ovvero una proposta. Ritengo inoltre sbagliata la proposta di un taglio molto più forte del secondo pilastro rispetto al primo. Il secondo pilastro è nel lungo termine, anche rispetto alle grandi sfide a cui andiamo incontro, come quelle nel campo dell’innovazione o della multifunzionalità, almeno tanto importante quanto il primo. Non esiste quindi alcuna ragione per intervenire come proposto dal Commissario.
Nelle sue proposte lei pone particolare attenzione alla necessità di sostenere le aziende di montagna e ai suoi prodotti. Oltre al supporto economico, che strategia propone?
Le aziende di montagna hanno inevitabilmente bisogno di supporto economico. In questo senso, va fatta una sorta di “discriminazione positiva”, aumentando il sostegno economico alle aziende di montagna, perché soffrono di costi di produzione più alti rispetto ai loro concorrenti. Ma il sostegno economico da solo non basta. Per vivere della loro produzione, le aziende di montagna devono produrre dei prodotti diversi rispetto ai loro concorrenti. Per questo, in montagna bisogna puntare su prodotti ad alta redditività e non sulla quantità. Ogni azione che aiuta gli agricoltori di montagna in tal senso è un sostegno concreto anche ai trasformatori, come per esempio le cooperative, ma anche per chi trasforma i prodotti in proprio. Infine, in montagna ha un ruolo centrale la multifunzionalità e, quindi, quelle forme di sostegno all’agricoltura che vanno nella direzione della diversificazione dei redditi, con l’agriturismo, l’agricoltura sociale, o qualunque altra possibilità di avere un reddito al di fuori dell’agricoltura.
Le aziende famigliari sono quelle che, specialmente nelle aree più svantaggiate, contribuiscono al controllo del territorio e ne impediscono il degrado: su questo lei propone un pagamento differenziato. In che modo?
Dobbiamo innanzitutto impegnarci perché i soldi della Pac vadano alle aziende familiari. Questo perché l’agricoltura europea si basa sul concetto di azienda familiare. Negli ultimi anni, abbiamo assistito ad un’industrializzazione dell’agricoltura sempre più spinta. La Pac non esiste per fa sì che il contribuente sostenga questo sviluppo, ma piuttosto per aiutare le famiglie che con il loro lavoro mantengono il territorio.
Detto ciò, dobbiamo identificare i soggetti che lavorano, cercando di escludere dalla ricezione dei contributi quelli che non fanno agricoltura.
Non pensa che possa trovare resistenze in ambito Ue?
Certamente, anche perché i soldi disponibili per l’agricoltura non aumentano, ma, anzi, c’è il rischio che diminuiscano. La politica è anche una battaglia per i fondi. È chiaro che chi perde farà resistenza, ma la politica deve essere in grado anche di affrontare questa resistenza.
Brexit: qual è la sua opinione sui risvolti, positivi o negativi, dell’uscita dall’Unione della Gran Bretagna?
Non vedo alcun risvolto positivo. La Gran Bretagna è un mercato importante per i prodotti dell’Unione europea e, in particolare, per l’Italia. Penso, ad esempio, ai vini, al prosciutto e all’ortofrutta. Anche nel caso in cui l’Unione europea riuscisse a siglare un accordo positivo con la Gran Bretagna, mi sembra comunque chiaro che il mercato britannico del futuro sarà più aperto a merci di altre provenienze. In tal senso, non va dimenticato che la Gran Bretagna è storicamente inserita nel Commonwealth e ha così legami con paesi che sono grandi produttori agricoli, come Canada, Nuova Zelanda e Australia. Inoltre, la Brexit porta poi con sé un altro aspetto negativo, cioè un ammanco per il bilancio europeo, che rischia di impattare anche su quello della Pac.
Lei ha dichiarato che bisogna farla finita con le rendite ingiustificate e che le risorse devono andare a chi fa davvero agricoltura: il riferimento è alle imprese di grandi estensioni che ‘vivono’ prevalentemente di aiuti Pac. Cosa propone?
La dimensione delle imprese non è il punto della questione. Il primo pilastro prevede un sistema di diritti di pagamento, che si basa su calcoli di produzione avvenuti ormai più di quindici anni fa e che non hanno più ragione di essere. Così succede che oggi ci sono soggetti che detengono titoli di pagamento ma non fanno più agricoltura o ne fanno meno rispetto ai titoli che hanno in mano. Non esiste alcuna ragione per continuare a pagare con i soldi dei contribuenti queste persone, semplicemente in virtù di un diritto che hanno acquisito. I soldi devono andare a chi produce.
Nel suo Rapporto le auspica la sostituzione del greening “con una nuova architettura degli impegni ambientali”: ce la spiega?
La mia impressione è che ormai tutti siano convinti che il greening non ha portato i risultati auspicati. Questo non lo dicono solo gli agricoltori, che soffrono di una burocrazia eccessiva, ma anche gli ambientalisti non sembrano essere soddisfatti. Ritengo più logico avere un chiaro legame con gli impegni ambientali del primo pilastro. Chi riceve soldi nel primo pilastro non deve inquinare le acque e la terra, non deve contribuire al riscaldamento globale e deve tutelare la terra dall’erosione. Inoltre, sono convinto che l’impegno volontario incluso nel secondo pilastro sia stato sostanzialmente efficiente, a prescindere dalle difficoltà di pagamento e di gestione che abbiamo avuto in Italia, che sono, per l’appunto, un problema più nazionale che europeo. Una buona combinazione tra una forte condizionalità nel primo pilastro e un impegno volontario nel secondo mi sembrano quindi meglio della situazione attuale.
A più riprese si invoca un catasto frutticolo europeo. Ci sono i presupposti per definire un unico registro europeo?
Per fare questo non basterebbe il registro, ma servirebbero anche delle regole relative ai nuovi impianti. Una cosa del genere non è fattibile nel periodo in cui viviamo. L’Unione europea è uscita dal sistema di gestione dell’offerta tramite quote.
Il problema dei giovani che vogliono avviare una attività nel settore primario è sostanzialmente la difficoltà nell’accedere al bene ‘terra’, oneroso e difficile da ammortizzare. Cosa si può fare?
Questa è chiaramente anche una questione nazionale. Si pensi al frazionamento dei terreni nelle zone di montagna. In questo senso, servirebbe una legge semplice su come ri-assemblare questi fazzoletti di terra, dando ai giovani una chance per entrare in agricoltura.
Per quanto riguarda l’affitto, invece, credo che l’Italia abbia una legge valida.