Dicembre 2016
Claudio Ferri, direttore Agrimpresa
Nel bene e nel male la canapa ‘cannabis sativa’ riempie pagine di quotidiani e rotocalchi: sempre di cronaca giudiziaria che con dovizia di particolari riporta di piantagioni più o meno occultate tra campi di mais o di serre tecnologiche dove la presenza del coltivatore è ridotta ai minimi termini, per ovvi motivi.
C’è anche l’astuzia tutta metropolitana di fare leva sui ritmi dinamici a cui siamo abituati, e qualche eclettico produttore coltiva negli spazi lasciati al degrado delle città, trasformandoli in giardini redditizi.
La cronaca si è occupata anche di canapa da fibra, quella che ha un basso tenore di Tetraidrocannabinolo (o Thc, la sostanza psicoattiva). Ormai una decina d’anni fa un agricoltore venne preso di mira dalle forze dell’ordine perché reo di aver coltivato canapa da fibra, ma scambiata per ‘buona’ da decine di ragazzini che avevano fatto della piantagione il loro ritrovo per attività ludiche: il tutto venne chiarito, ma ci vollero giorni e tanta carta bollata per chiudere il capitolo.
Pro o contro la liberalizzazione dell’‘erba’ (a proposito, quest’ultima può essere coltivata per scopi terapeutici solo, per il momento, nello stabilimento Farmaceutico militare di Firenze), a tutt’oggi è ammessa solo quella da fibra, che cresce senza problemi. Fa bene al terreno, è un’ottima essenza per gli avvicendamenti, ma la redditività è bassa. Sono anni che a più riprese gli agricoltori cercano di dar vita ad una filiera che porti valore aggiunto ad un prodotto dai molteplici usi. Tutto è ben spiegato in un approfondimento di Agrimpresa, in questo numero.
Fatto sta che non decollano iniziative che portino a successi economici di rilievo, capaci anche solo di generare una Plv paragonabile a quella di un qualsiasi cereale, che da anni non riempe le tasche.
L’unica cosa di cui è ricca la canapa è la bibliografia.
Ci sono trattati chilometrici che descrivono le potenzialità, i benefici che porta al terreno, le qualità della fibra e della pianta intera che può essere utilizzata in edilizia, nel settore tessile, eccetera, eccetera. Pure a tavola la si vuole valorizzare – e ben venga – ma quante di queste eccelse qualità trovano un riscontro in una filiera in grado di distribuire in modo ragionevole il valore? C’è il semivuoto.
Ho assistito personalmente, e con interesse, a dimostrazioni di coltivazione e raccolta, convegni e dibattiti, ma ancora a distanza di anni vedo decine di rotoballe lasciate ai margini del campo, inutilizzate. Adesso c’è una legge che disciplina questa coltura, un ‘plus’ importante che non può essere un alibi per impedire di costruire una solida filiera che deve iniziare da una ricerca di mercato, capire quali sono le opportunità commerciali, stringere accordi con trasformatori e distributori, in grado di remunerare la materia prima e infine programmare la produzione. Sennò ci accontentiamo della patina bucolica che avvolge la canapa, bella ma povera.