Da ragazzi, a scuola, abbiamo tutti sbuffato sulla Divina Commedia del sommo Dante Alighieri. Solo più avanti, nel tempo, ne avremmo colto la grandezza.
Basti pensare alla sua celebre (e attuale) invettiva: “Ahi serva Italia, di dolore ostello/nave senza nocchiero in gran tempesta/non donna di province ma bordello”(Purgatorio, VI, versi 76-78). Dunque, dalla sempiterna antologia di vizi e virtù italiche spilucchiamo una delle varie storie, in salsa romagnola, della Commedia. Passiamo all’Inferno. Dante è in visita nel girone dei traditori. E qui incontra, tra gli altri, un tale, allora famoso alle cronache, che gli dice: “Io son frate Alberigo/son quello da le frutta del mal orto/che qui riprendo dattero per figo”(Inferno, XXXIII, v.118-120).
La metafora medioevale sta per “pan per focaccia”: non solo, poiché il dattero era più costoso del fico, la pena era ancor più grave della colpa, Correva il 1258. A Faenza comandava la Signoria dei Manfredi. Tra questi Alberigo (dell’ordine dei frati gaudenti). Durante una contesa di famiglia Alberghetto, cognato di Alberigo, lo prende a schiaffi. “Alapam dedit”, scrive il cronista Bentivoglio da Bologna. Occhio al termine latino “alapam”: evoca la sonorità del ceffone. La rissa è momentaneamente sedata. Ma cova la vendetta, tremenda.
Alberigo convoca un pranzo pacificatore, nella villa di campagna dei Manfredi a Pieve di Cesato, sulla Ravegnana, presso il ponte della Castellina. Pace e bene a tutti, brindisi. Fino al comando: “vengano le frutta”. È il segnale convenuto. I sicari, finti camerieri, nascondono pugnali sotto i vassoi. Alberghetto e suo padre Manfredo Manfredi saranno scannati. E Alberigo finirà all’inferno, nel Cocìto, la ghiacciaia eterna. Senza attenuanti, prevalenti sulle aggravanti, a poter lenir la pena…
Il Passator Cortese