Claudio Ferri, direttore Agrimpresa
Jimmy Carter, presidente degli Stati Uniti dal 1977 al 1981, tornò a coltivare arachidi dopo il fallito blitz che doveva liberare i 58 ostaggi nell’ambasciata Usa a Teheran. E che gli costò la rielezione alla Casa Bianca. Un ritorno alla campagna, anzi alla coltivazione delle ‘noccioline americane’ (come spesso vengono chiamate) che evidentemente assicuravano un buon introito all’ex presidente.
Una riscoperta di questa coltura l’hanno fatta alcuni agricoltori ferraresi, territorio in cui negli anni Sessanta veniva coltivata una varietà di arachide che ben si era adattata a quei terreni. A distanza di anni la coltura è stata rispolverata grazie ad un rinnovato interesse del mercato verso produzioni nazionali, in questo caso emiliano romagnole. L’arachide non è l’unica ‘nuova’ coltivazione che suscita interesse nei produttori, ma l’orizzonte produttivo che stanno esplorando gli imprenditori si allarga sempre di più, alla ricerca di alternative che possano garantire reddito.
L’elemento propulsore che spinge a diversificare – o meglio sostituire – colture storiche con nuove piantagioni non è pionierismo agricolo, ma diventa una precisa necessità di introdurre o alternare produzioni che il mercato non premia sul piano dei prezzi o che sono attaccate da patologie e parassiti tali da non giustificare investimenti colturali classici. Un mix di fattori, dal cambiamento climatico alle avversità delle piante, fino a mercati che non premiano economicamente gli sforzi dei coltivatori, portano quindi ad intraprendere nuove strade.
Da alcuni anni, specialmente in Romagna, si preme l’acceleratore sulla frutta in guscio, a partire dalle noci da consumo fresco fino alle nocciole. Non sono novità assolute nel panorama produttivo della Penisola, ma la crisi frutticola ha influenzato questi cambiamenti di rotta grazie anche alla nascita di nuove filiere e ad un interesse da parte dell’industria di trasformazione. La tendenza ad impiegare materie prime nazionali che percorrano tragitti più brevi per raggiungere gli stabilimenti hanno inoltre dato slancio a queste colture: meno chilometri, meno CO2, maggior sostenibilità ambientale. L’obiettivo è salvaguardare il reddito, naturalmente, e le aspettative economiche sono legittime da parte degli imprenditori che ‘fuggono’ da esperienze produttive non più gratificanti e che ripongono fiducia in un mercato meno ostico nei confronti della frutta in guscio. Il boom dei birrifici tradizionali ha poi stimolato la coltivazione del luppolo, pianta semisconosciuta dalle nostre parti fino a poco tempo fa, ma che sta prendendo piede: ce ne siamo occupati nel numero scorso di Agrimpresa raccontando singolari esperienze di campo.
Intraprendere nel settore primario significa anche affrontare nuove situazioni dettate da più fattori, a partire dal ‘termometro mercato’, ma soprattutto in vista di recenti scenari che si appalesano in campo: nuovi parassiti e patologie da contenere con la chimica che stridono con una Pac alla ricerca di sostenibilità delle derrate alimentari.
Ho ricordato che Jimmy Carter tornò a coltivare arachidi, ma un anno dopo avviò, con una sua Fondazione, un’attività a favore della pace e dei diritti umani. Una lodevole iniziativa non percorribile da tutti.