Elogio del cappone, brodo mirabile per tortellini e cappelletti

Gennaio 2015

Giorni di Natale, malgrado i chiari di luna che corrono. Almeno ci sia dato, a casa o in visita a parenti e amici, un godurioso piatto di tortellini o cappelletti all’uso romagnolo in un mirabile brodo di cappone.

L’amico Tugnazz il suo cappone (prima per il brodo, poi per il lesso con mostarde golose) l’ha già prenotato in agosto da una sua amica, buona “azdora”. Poichè è a metà agosto che tradizionalmente si “accapponano”, cioè si castrano, i gallettini di turno. Quel cappone Tugnazz, come altri buongustai, lo ha poi pagato “a carati”: almeno, sostiene Tugnazz, la propria “libido” gastronomica ognuno se la paga di tasca sua, senza altri danni o corruzioni. Sventurata, da secoli, è la storia dei capponi: evirati, verso l’ ingrasso, da mano abili e svelte che gli tolgono“ i “fasùl” ( i “fagioli”…) e poi legano la ferita con un filo sottile. Filo che – prima della messa in pentola – veniva un tempo conteso, poiché ritenuto portafortuna, in particolare dai giocatori d’azzardo (il brivido delle carte: un sospiro d’amore, un sospiro d’odio, come le belle donne; altro che “gratta e vinci”…). Capitava in qualche caso che l’operazione chirurgica non riuscisse appieno: e allora il cappone diventava, a seconda delle voci dialettali, “gallìon”, o “gaglièstar”. Una sorta, diremmo oggi, di “transgender” dell’aia (senza che alcuno se ne adonti, confidiamo sull’ironia: il Passatore, vecchio cuore romagnolo e libertario sarà sempre dalla parte dei cosiddetti diversi). Finale in allegria, per quanto possibile, con un’antica ricetta del dottor Balanzone, bolognese (ma anche Bologna fece parte storicamente del pianeta delle Romagne). Contro la cattiva sorte, gargarismi di tortellini (o cappelletti) in brodo sgrassato di cappone. Poi deglutire. Buone feste e anno migliore, bella gente.

Il Passator Cortese

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