La cerca del tartufo in Italia è patrimonio dell’Unesco

tartufi

Alessandra Giovannini

DALLA REDAZIONE – Il tartufo Made in Italy festeggia l’iscrizione del 15mo elemento italiano tutelato dall’Unesco con un aumento record delle esportazioni del 44% nel 2021. Dal 16 dicembre 2021, infatti, la “Cerca e la cavatura del tartufo in Italia: conoscenze e pratiche tradizionali” sono patrimonio culturale immateriale dell’umanità. 

La decisione è stata comunicata dopo un iter avviato otto anni fa da un’istanza delle associazioni dei tartufai, 70.000 addetti e 14 regioni coinvolte, ai ministeri della Cultura e dell’Agricoltura e dalla successiva presentazione della candidatura da parte della Farnesina nel marzo 2020. Il tartufo è cultura e identità perché racconta un patrimonio che da secoli caratterizza la vita rurale di ampie porzioni d’Italia. 

“Si tratta – si leggeva nella candidatura – di una tradizione secolare tramandata attraverso storie, aneddoti, pratiche e proverbi che raccontano di un sapere che riunisce vita rurale, tutela del territorio e alta cucina. La pratica accomuna conoscenze vaste, incentrate sulla profonda conoscenza dell’ambiente naturale e dell’ecosistema, ed enfatizza, inoltre, il rapporto tra uomo e animale, riunendo le abilità del tartufaio e quelle del suo cane”.

In Italia c’è una rete di circa 73.600 tartufai, riuniti in 45 gruppi associati nella Federazione nazionale associazioni tartufai italiani (Fnati), circa 44.000 sono singoli tartufai e si calcolano altre 12 Associazioni di tartufai che, insieme all’Associazione nazionale città del tartufo (Anct), coinvolgono circa 20.000 liberi cercatori e cavatori. Tra le associazioni legate alla Fnati, anche Il Tartufo di Bologna che conta circa 200 iscritti, anche di diversi comuni della provincia. “Da tanti anni aspettavamo questo riconoscimento – dice Dino Degli Esposti, presidente della realtà bolognese -. È importante per la salvaguardia di una tradizione e di un sport libero che, però, può anche essere un mestiere”. Un mestiere che va tutelato. 

“È nota – continua il presidente – la ritrosia nel voler dare troppe indicazioni su dove trovare il prezioso tubero. Difficilmente sono insegnate le posizioni e l’arte, e i segreti, si confidano solo alle generazioni più vicine”. Un’attività, dunque, che è spesso tramandata di padre in figlio, fin dal primo dopoguerra, anche negli anni ’70, ’80, dai tempi in cui è stata un’attività in grado di portare risorse a tante famiglie e aiutare il sostentamento. E non ci sono tartufai senza il cane, anche se una volta il compagno di raccolta era il maiale o il cane che non risultava buono per la caccia. “È la nostra arma principale – conclude Degli Esposti -. Senza il cane, niente tartufo”.

E poi c’è chi tiene una tartufaia, come Sergio Rontini che a Castel del Rio coltiva marroni nell’Azienda Agricola Il regno del marrone. “La tartufaia che è naturale, recintata e a fondo chiuso, è nata nel 1997 – racconta Rontini -. Era di mio suocero poi l’abbiamo presa noi negli anni ’90. In circa 14 ettari ci sono querce, sanguinelle, carpine, pioppi. Negli anni migliori abbiamo raccolto anche 5, 6 chili di tartufo. L’anno scorso niente e nel 2020 ancora meno, adesso è troppo presto per fare previsioni, l’importante è che piova almeno ad agosto perché è proprio questo il problema, la siccità”. Bocca asciutta per Rontini e la sua famiglia e per i tre cani lagotto. 

“La tartufaia va mantenuta pulita ma se non c’è acqua come capita negli ultimi anni, non c’è prodotto. Per noi non è una rendita ma una passione, un ricordo di famiglia ed è bello e importante che sia stato dato questo riconoscimento ad un prodotto così unico”. 

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