La meravigliosa salsa di pomodoro l’avevano già inventata gli aztechi del Messico precolombiano, molti secoli prima della scoperta dell’America. Nei mercati del regno di Montezuma le azdore azteche vendevano concentrati e sughi pronti a base di pomodoro (e peperoncino): ‘all’arrabbiata’, diremmo oggi. Ma già agli indios il pomodoro fresco piaceva crudo, in insalata.
La rossa bacca del pomodoro giunse in Europa sulle navi dei conquistadores. Ma per lungo tempo il pomodoro fu guardato e trattato come un clandestino. Ci vollero secoli prima che la pianta del pomodoro, un jolly che si presta a vari climi, trionfasse piano piano, ma irresistibilmente: in cucina, non solo come pianta ornamentale per i suoi fiori dall’aspetto esotico. Non sappiamo i nomi dei cuochi napoletani, benefattori dell’umanità, che, più di due secoli fa, scoprirono le virtù della pummarola sulla pasta, sulla pizza, nei ragù. In tutte le cucine, non solo quelle dei ‘signori’. Le Camicie Rosse dei Mille di Garibaldi, dopo l’Unità d’Italia, riportarono al nord anche il rosso del pomodoro come colore e ingrediente vincente della cucina italiana e dei suoi piatti più noti in campo internazionale. Qui in Romagna il pomodoro, in dialetto, si dice pandòra e indica sia la pianta che il gustoso frutto. E pandurèn sono i pomodorini a fiaschetta (coltivati tempo prima dei pomodorini ciliegia) che le azdore contadine, prima delle salse e dei sughi già pronti di oggi, conservavano appesi alle travi di casa per usarli d’inverno come condimento. Compreso il pandurèn nella pentola del brodo di cappone per i cappelletti di Natale: “par devuziòn”, per devozione.
P.S. Da parte di Tugnazz: tenete botta, bella gente e usate ogni saggia precauzione, alla faccia del virus ‘boja’.
Il Passator Cortese