Nei recenti giorni pasquali, dopo due anni di tempo sospeso dal Covid, son tornato con l’amico Tugnazz a trovare un nostro amico d’infanzia, parroco tra le colline romagnole. Ci ha accolto con piacere e ci ha subito somministrato – nostro malgrado – una benedizione. “Non fate i pataca, cari miscredenti: in questi tempi cattivi una benedizione non fa mai male”.
E poi, era di pomeriggio, ci ha offerto un rinfresco: vin santo e fette di ciambella. Ne è sortito un gustoso dibattito: vin santo story. Il vin santo è cosiddetto perché in origine fu usato per la celebrazione della Messa. Da noi lo si otteneva con buone uva di Trebbiano o di Albana esposte al mezzogiorno sotto una grondaia, un tempo, per un primo appassimento naturale sotto l’ultimo tepore d’ottobre. Poi si procedeva nella pigiatura a piedi nudi (dopo drastici lavaggi) e si versava il mosto in un piccolo tino usato solo per fare il vin santo, poi chiuso con un coperchio sigillato con malta. La chiusura ermetica rallentava la fermentazione. A fine ciclo di stagionatura, ecco il nettare dal bouquet delicato, bel colore bronzo dorato, che ostentava volentieri i suoi 12/13 gradi.
L’amico parroco ci ha raccontato che, nel tempo antico, si usava anche vino rosso, poi la liturgia dispose l’uso del vino bianco, simbolo di purezza: “naturale da genuine vite”, senza sostanze estranee.
Obiezione di Tugnazz: “ A volte i lieviti naturali fanno scherzi da prete: e se il vino tendeva all’aceto?”. Risposta del parroco paziente: “Già nel 1887 si permise ai parroci, o a chi per loro, la dovuta correzione alcolica o la pastorizzazione a 60°”.
Poiché tutti i salmi finiscono in gloria, un altro buon abbinamento del vin santo è con la ciambella. Recitava un proverbio romagnolo: un goccio di vin santo e un pezzo di ciambella, nei giorni di festa a Pasqua e Natale, rinfrescano lo stomaco e le budella. Prosit.
ll Passator Cortese