L’eccellenza del riso è in Italia: c’è tradizione, ma anche tanta ricerca e sperimentazione dell’Ente Risi 

riso italiano

Claudio Ferri, direttore Agrimpresa

CASTELLO D’AGOGNA (Pavia) – Castello d’Agogna, è qui che ‘si fa il riso nazionale’ e si studiano nuove varietà. Nel piccolo comune pavese al centro della Lomellina è attivissimo il Centro sperimentale dell’Ente Nazionale Risi, un organismo che nel 2025 festeggerà due anniversari: 100 anni fa a Vercelli, nella stazione sperimentale di risicoltura e delle colture irrigue, Giovanni Sampietro sperimentava e introduceva, per la prima volta in Italia e in Europa, la tecnica dell’incrocio tra varietà diverse di riso. Inoltre 80 anni fa, proprio attraverso la tecnica dell’ibridazione, in una cascina di Paullo, nel milanese, nasceva la varietà di riso italiana più amata e conosciuta nel mondo, ovvero il Carnaroli.

A pochi chilometri da Centro c’è Mortara: nella stazione di questo comune le mondine raggiungevano le risaie del vercellese, novarese e padovano, nel cuore della Pianura Padana, su treni simili a vagoni bestiame per poi attraversare i campi a piedi o su mezzi di fortuna, e approdare nelle cascine, circondate dalle risaie. Altri tempi, quando la meccanizzazione era ancora agli albori e la forza lavoro era rappresentata da lavoratrici che provenivano da molte località del Centro Nord. Questi luoghi e il duro lavoro, sono narrati dalla cinematografia e da tanti racconti, anche da chi ha lavorato nelle risaie.

Il settore risicolo è stato al centro di un incontro organizzato da Cia-Agricoltori Italiani proprio nel Centro sperimentale di Castello d’Agogna, dove si fa ricerca ma anche analisi di mercato. 

“Ci avviciniamo al secolo di vita – spiega Natalia Bobba, presidente dell’Ente Risi – ed è l’unico organismo che tutela una filiera, dal produttore all’industria di trasformazione. Seguiamo un po’ tutte le attività e siamo un’eccellenza: io definisco un gioiello questo centro ricerche – dice – perché è l’unico in Europa dove si fa ricerca ad altissimo livello. Tant’è vero che i nostri tecnici molte volte sono interpellati a livello internazionale, e questo ci fa onore. Facciamo molta ricerca, ci sono laboratori all’avanguardia in grado di estrapolare il Dna e collaboriamo con organismi di controllo governativi”.
Bobba ricorda che il riso italiano è un prodotto unico, completamente diverso rispetto alle produzioni del Sud Est asiatico o a quello del Sud America. “È un riso che ha delle caratteristiche organolettiche particolari – osserva – di alta salubrità, proprio per i sistemi di coltivazione che in Italia dobbiamo rispettare”.

L’Italia si conferma di gran lunga il primo Paese produttore di riso in Europa con oltre il 50% dell’intera produzione comunitaria, ben 226mila ettari di superfici seminate e circa 1,4 milioni di tonnellate prodotte nel 2024.

“Deteniamo un primato – conferma Roberto Magnaghi, direttore dell’Ente – e il secondo Paese produttore importante è la Spagna che di ettari ne ha circa centomila, siamo quindi il Paese che rifornisce per la maggior parte il mercato europeo. Ma – sottolinea -, a differenza del riso che viene prodotto nel mondo, il nostro non è una commodity perché noi vendiamo varietà di riso diverse a seconda dei piatti che si vogliono preparare: questo è il frutto di una lunga tradizione che, associata all’innovazione, produce grande qualità”.

Il 92% della superficie risicola si concentra nella Pianura Padana, dove Lombardia e Piemonte detengono gli investimenti più importanti, ma la coltura è con punte di eccellenza anche in Emilia Romagna. “In questa regione se ne coltivano circa 5.000 ettari – ricorda Magnaghi – poi abbiamo aree anche nel Sud Italia, per esempio in Calabria, ma ci sono piccole coltivazioni anche in Sicilia. In questa isola, peraltro, il riso è stato portato dagli arabi nell’anno Mille nel nostro Paese. Poi c’è la Toscana con produzioni nel grossetano”.  Riguardo ai consumi, Magnaghi conferma che sono stabili, con un avvicinamento da parte di consumatori verso risi non prettamente nazionali. “Mi riferisco al Basmati – precisa – che non è una varietà ma è un brand. Tuttavia è in parte competitore con quelli che sono i nostri acquisti”. La promozione, che è portata avanti anche dalle rubriche di cucina, incentivano il consumo di riso: preparare un piatto di risotto è ‘elegante’, oltre che gustoso. “Con il riso si possono fare piatti che vanno dall’antipasto al dolce – ragiona ancora Magnaghi – quindi, è importante usare il chicco di riso giusto che permette di preparare i piatti diversi. Tant’è vero che nei periodi estivi abbiamo il picco di consumo. Il competitore è il Basmati, che porta un nome esotico, una varietà non coltivata in Italia che ha una spiccata aromaticità. Devo tuttavia segnalare che anche in Italia abbiamo alcune varietà con le stesse caratteristiche”. 

Negli ultimi mesi l’osservatorio dell’Ente risi rileva che il mercato è caratterizzato da importazioni con partite che contengono principi attivi non consentiti e tossine che li rendono non commercializzabile. “Sul Basmati – dice ancora – ci sono anche dei falsi miti che bisogna in qualche modo sfatare: si dice che abbia un indice glicemico molto basso, ma non si sa che anche varietà italiane hanno le stesse caratteristiche”. L’Italia è autosufficiente in termini di consumo interno, ma in Europa abbiamo la necessità di importare riso. “Noi abbiamo una produzione collocabile di circa un milione di tonnellate, ma in Europa se ne consumano più di due milioni e mezzo – specifica il direttore dell’Ente Risi – e quindi è necessaria l’importazione da altri Paesi. Non siamo contrari, ma ci preoccupano le importazioni che avvengono senza rispetto della reciprocità – aggiunge – quindi senza coltivazioni che rispettano le nostre regole e soprattutto le condizioni di prezzo che non ci permettono di competere. 

Il 60% della produzione italiana è esportata in Europa, soprattutto in Germania e Francia, poi il riso made in Italia raggiunge anche il Regno Unito, la Svizzera, gli Stati Uniti e la Turchia.

“Circa il 33% del riso prodotto nel nostro Paese arriva al mercato Ue, mentre il 13% è destinato ai mercati extracomunitari come gli Usa – analizza Magnaghi – . L’Italia esporta in Europa 538.000 tonnellate di riso, in particolare verso Francia (128.000 tonnellate) e Germania (136.000 tonnellate). Osserviamo tuttavia un calo dell’export verso Parigi (-21.000 tonnellate) che potrebbe essere legato al caro vita che sta attraversando il Paese transalpino”. 

Riguardo ai possibili dazi da parte dell’amministrazione Trump, Magnaghi ricorda che l’Italia esporta negli Stati Uniti circa il 6% della produzione, peraltro di varietà pregiate da risotto come Carnaroli, Arborio, Vialone Nano. “Si tratta di produzioni di eccellenza difficilmente sostituibili con coltivazioni locali – conclude Magnaghi – è giusto tuttavia vigilare sulle politiche dei dazi che comprometterebbero parte dell’export del nostro agroalimentare di qualità verso gli Usa”. 

“Il riso è un’eccellenza dell’agricoltura italiana, non solo per la potenza dei numeri – ha detto Cristiano Fini, presidente nazionale Cia -. Alla quantità si aggiunge una qualità indiscussa, che nasce dalla tradizione e dal rispetto per l’ambiente e il paesaggio che caratterizzano le aree di produzione. Il comparto è chiamato a confrontarsi con grandi sfide, dai cambiamenti climatici agli aumenti dei costi di produzione, dalle dinamiche di mercato sempre più complesse alle politiche Ue di transizione green spesso confuse e pasticciate”. Nel contesto di queste difficoltà, Fini ha anche espresso il suo apprezzamento per il lavoro svolto dall’Ente Risi, definendolo un “vero e proprio patrimonio della ricerca pubblica italiana, al servizio degli agricoltori”. Sulla nuova Pac, Fini ritiene che “deve essere adeguata nelle risorse e di facile attuazione” e soprattutto “massima attenzione di Cia sui possibili impatti degli accordi di libero scambio” con i Paesi del Sud America (Mercosur) e con i Paesi Eba (Cambogia, Myanmar). 

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